[...] Via Tallone, dove sono nata [...] è una strada breve, fiancheggiata da case basse, una strada come ce ne sono tante alla periferia delle grandi città. A Milano, sembra fatta apposta per imprigionare la nebbia, di sera, e per liberarsene lentamente, quasi a malincuore, il mattino.[...]
All'angolo, c'è un bar-bigliardo [...] Tra i miei ricordi, [...] rivedo una radio, un grammofono a manovella e una pila di dischi. Le voci nuove di Alberto Rabagliati, di Tina Allori e di Natalino Otto cantavano d'amore e di malinconia, un amore e una malinconia che sembrano tanto diversi e lontani da quelli di oggi.
Allora, quando anch'io ero diversa, quel caffè di periferia delimitava il mio "regno incantato", il mio primo "teatro". Il palcoscenico era invaso da sedie e tavolini. Le luci della ribalta luci discrete di vecchi lampadari - non avevano ancora cominciato ad abbagliarmi. Nella sala, la gente chiacchierava e rideva: era un pubblico rumoroso e indisciplinato. Spesso la sera, i miei genitori scendevano al bar e mi portavano con sé. Io avevo cinque anni, ero una bambina timida e un po' scontrosa. Restavo seduta tranquilla, in silenzio, a capo chino. Poi, appena qualcuno metteva un disco sul grammofono, sembrava che dentro di me scattasse una molla segreta. Mi lasciavo scivolare giù dalla sedia e seguivo la musica.
Non potevo fare a meno di seguirla. La musica mi trascinava, dovevo viverla, trasformarla in una cosa mia. Così, incominciavo a ballare, improvvisando passi, volteggi e arabeschi che, d'istinto, si adeguavano al ritmo con un'interpretazione ingenua, ma personale. Quando la musica si interrompeva, mi fermavo trasognata. Intorno, scoppiavano gli applausi. E allora, io tornavo nella realtà, ridiventavo una bambina timida e scontrosa che correva a rifugiarsi sulle ginocchia della mamma.
I miei genitori erano fieri di me e del successo che riscuotevo tra i loro amici. Non potevano prevedere che in quella specie di gioco avrei trovato una ragione di vita, il mio destino. Anch'io non lo capivo: avevo un sogno, ma non riuscivo a esprimerlo, a isolarlo dagli altri che formano il mondo dell'infanzia.
Un giorno, qualcuno mi aiutò a definirlo e, improvvisamente, quel sogno divenne unico, essenziale , insostituibile. Avevo nove anni quando una signora amica di famiglia suggerì ai miei genitori d'iscrivermi alla scuola di ballo della "Scala". Ero nata per essere una danzatrice - diceva - e possedevo delle doti che dovevo valorizzare. [...]
Carla Fracci
(Grazia - 12 febbraio 1961)
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